lunedì 14 gennaio 2013

VENERATO NON CREATO


VENERATO NON CREATO…

Il racconto della risurrezione di Mt (28,9-10) fotografa l’incontro delle donne con Gesù. Lasciato il sepolcro, dopo le parole dell’angelo, lo videro, “gli presero i piedi e si prostrarono dinanzi a lui”. La scena è quasi liturgica. Matteo, che scrive circa verso il 70-80, raccoglie l’esito di un percorso religioso già maturo. È Larry W. Hurtado a richiamare, oggi, il processo di formazione della venerazione di Gesù, attestata già tra il 30 e il 50 d.C. nelle prime comunità. Il culto di Gesù si sviluppa dentro una cultura – giudaica – connotata da un monoteismo esclusivo, per cui il problema più rilevante è capire come sia stato possibile accogliere la devozione di Gesù in rapporto a quest’unico Dio. In che modo e quali forze portarono a questa venerazione? Non basta pensare che l’affermazione della divinità di Gesù dipenda dalla forza apologetica dei miracoli o dall’autodichiarazione messianica di Gesù; né, all’opposto, che sia frutto d’invenzione mitologica a partire da influssi greco-romani, che presentano casi di uomini fatti diventare divini. È una spiegazione semplicistica e ormai confutata. Più che speculazioni teoriche, occorre indagare il fatto stesso del comportamento religioso che l’incontro con Gesù ha suscitato. Al di là del profeta ammirato (e osteggiato), le comunità individuano da subito un rapporto peculiare tra il Dio di Israele e questo Gesù, esperienza che chiede di essere compresa in un orizzonte religioso nuovo: “per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo grazie a lui” (1Cor 8,6). Appare un modello “binitario” dove Gesù non è un dio “in più”, ma dove da Dio ne è richiesta la venerazione come Signore (kyrios): “Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (At 2,36). Ciò in forza di un rapporto speciale che è venuto ad emergere durante l’attività pubblica: l’autorità riconosciuta (con quale autorità…?), la temerarietà d’interpretare la Torà (ma io vi dico…), l’unità relazionale rivendicata (io e il Padre siamo una cosa sola…). Deve essere chiaro che ciò che per noi oggi sembra una semplice dichiarazione di fede, doveva costituire per le prime comunità una sfida enorme, una richiesta a “darne ragione” di fronte alle obiezioni apparentemente insuperabili. L’annuncio (kerigma) della risurrezione, principale dato apologetico, non pare bastare e chiede un’esplorazione nella vita stessa di Gesù, cosa che avvenne attraverso le tradizioni che diedero vita ai Vangeli. La prima percezione chiara è che Gesù non fu un evento pacifico e pacificatore, divise tra seguaci e oppositori. La fede in lui rimane inquietante nella sua stessa origine e pretesa. Chi pensa che l’aderire alla sua “Via” (l’originario nome del cristianesimo) sia stata una questione di comodo o una scelta tranquillizzante, si sbaglia. Ieri come oggi. Cosa spinse però i discepoli, notoriamente sottrattisi alla cattura, scappati e rifugiati nelle loro terre, a riprendere la strada del Maestro? Indubbiamente non bastò una convinzione dottrinale, la cui sostanza maturò probabilmente nel tempo, quanto l’esperienza diretta del Risorto.
Lc 24,13-35 è l’emblematico racconto dell’incontro con il Risorto da parte di due ignari discepoli che tornavano ad Emmaus. I due camminano verso casa nella delusione, per le speranze finite sul Calvario e, ancor più, per lo sconcerto dell’annuncio del sepolcro vuoto e della presunta apparizione alle donne. Poco credibile. Il loro volto triste è intercettato dal viandante che si accosta ed avvia un dialogo. Le parole dello sconosciuto sono capaci di riaccendere echi sentiti: parla di come le Scritture antiche illuminavano le circostanze e di come riguardassero l’attesa del Cristo. C’è riflessa forse una più matura fede postpasquale in ciò, ma non è da escludere che il viandante stesso (Gesù) abbia potuto fare quell’esegesi per spiegarsi. La lezione affascinante non basta. Il darsi ragione, quale miglior “sapere” perché e come sono andate le cose, non basta: non serve una laurea in teologia. Certo è che l’appello alla Scrittura (“Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”) consente almeno l’abbandono dei discorsi ancorati alle speranze deluse (“sono già tre giorni…” e non è accaduto nulla!) ed il passaggio ad una memoria rinvigorita: non s’è sperato per un nulla! Quelle parole sono riconosciute capaci di “far ardere il cuore nel petto” perché sono memoria della promessa di Dio. Si viene rimproverati per averla dimenticata (“Sciocchi e tardi di cuore…”). Neanche questo ardore basta: conserva la memoria, ma non fa “vedere” Gesù accanto a loro. Però sollecita a prolungare l’incontro: si sta bene con te, fermati a cena, resta con noi! Ecco la commensalità e la connaturalità dei gesti: lo stile consente di accedere alla persona. In quei soliti gesti di benedizione e dello spezzare il pane “si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”. Ciò che riguarda il Cristo è una questione di stile, di gestualità concreta. Appare alla vista! Nella distribuzione della cena s’intravede, ormai, il dono del corpo/sangue necessariamente crocifisso (“Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”).
Avviso ai naviganti!  Cristo risorto appare in ogni gesto di donazione. Quando “appare” così, può anche “sparire”. Immediatamente: “Ma lui sparì alla loro vista”. Uno dei versetti più enigmatici. Non un abbandono, ma una conferma che ciò che deve essere “saputo” è dato e ciò che deve essere “vissuto” – comunione e condivisione – è avviato. Ecco la promessa del regno di Dio resa presente. Basta, questa volta, per assicurare il ritorno a Gerusalemme, la città da cui tutto ripartirà; basta per testimoniare la fede sintetica ed essenziale “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”. Una formula liturgica (Simone è Pietro, la roccia), più simbolo che fatto, capace di dire in eterno che l’atto di fede è questa stessa testimonianza.

Che questa esperienza richieda un culto – cos’è la Messa se non la drammatizzazione di questo episodio? - segnala la sua potenza performativa: il seguace di Gesù non aderisce idealmente, ma esistenzialmente, coinvolgendo tutta la sua esperienza vitale in una dimensione assoluta. Solo questa sacralità può pretendere un linguaggio - parole e gesti - cultuale, una ritualità perenne e costitutiva della propria identità. Un fare gratuito, senza scopo, se non quello di essere memoriale dell’essenziale. Se il cristianesimo è divenuto religione (e non solo etica), lo è per questo potere liturgico. Ciò che siamo non va solo effettuato, quanto celebrato. Battesimo e cena eucaristica ci attestano sulla Via di Gesù.

Fabrizio Filiberti

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