Se il kerigma della morte
e risurrezione di Gesù costituisce il nucleo originario della fede cristiana,
occorre rendersi conto che le conseguenze di questo annuncio non hanno prodotto
in un colpo solo quello che oggi chiamiamo “cristianesimo”. Occorre, dal punto
di vista storico, non applicare a quanto avvenne nel I secolo le categorie di
oggi, sebbene abbiano una lunga tradizione. Lo sguardo degli storici è ormai
consolidato sulla opportunità di focalizzare diversi gruppi e comunità, che non
hanno recepito una dottrina su Gesù (tanto meno un catechismo), quanto hanno
aderito a una persona, a uno stile di vita, a un’esperienza umana e religiosa,
interna, peraltro, all’originaria cultura giudaica. Quando in Atti degli
Apostoli 11,26 si dice che ad Antiochia, capitale della provincia romana di
Siria, “per la prima volta i discepoli furono chiamati Cristiani”, non
necessariamente si deve pensare che si ritenessero già un gruppo esterno al
“giudaismo”, né che appartenessero loro le forme e istituzioni che vedremo
proprie del III-IV secolo, nelle quali più facilmente noi stessi potremmo
riconoscerci. Ad un certo punto, è certo che il gruppo dei cristiani si separò
e fu espulso dalle sinagoghe, dove di solito predicavano, ma non sembra nemmeno
questo il punto in cui “nacque” il cristianesimo.
Il fatto è che le conseguenze
della vicenda di Gesù e dell’annuncio della sua risurrezione, furono tali da
produrre una rapida formazione di comunità, secondo uno schema che,
verosimilmente, si può rintracciare in Atti 2,8 laddove si dice che i
discepoli sarebbero stati testimoni di Gesù “a Gerusalemme, in tutta la
Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra”. Questa geografia –
precisata con lo sviluppo nell’area siriana, nell’Asia minore, nella Grecia
fino alla Macedonia e a Roma – costituisce il canovaccio della narrazione degli
Atti, interessati più che alla precisione dei fatti ad una teologia
della missione, al cammino della Parola fino ai confini del mondo conosciuto o,
meglio, al suo centro (Roma). Narrazione sufficiente per vedere come le
comunità sorsero in comunione, ma anche in autonomia tra loro e come in esse si
moltiplicarono inizialmente le “voci” missionarie, portando a più forme di
cristianesimo. Giacomo, Barnaba, Pietro, Paolo, ma anche Apollo ed altri, sono
i protagonisti di predicazioni talvolta in conflitto tra loro. È evidente che
il “cristianesimo” è stato fin dall’inizio una pluralità di cristianesimi,
locali, raggruppati attorno a figure carismatiche, all’uso di testi che via via
s’imponevano per autorevolezza. Ma, chi sono i cristiani in rapporto ai giudei
e ai pagani?
Occorre notare che mentre si
parla di “giudeo” in riferimento ad un gruppo etnico culturalmente omogeneo (sarebbe
più corretto dire: ebreo) e di “giudaico” riguardo a una cultura e alla
religione di appartenenza (giudaismo opposto a ellenismo), ciò non vale per le
parole “gentili” o “pagani” – che ricorrono nel Nuovo Testamento. Con esse s’indicano
i romani, gli egizi, i greci – termine, quest’ultimo, talvolta generalizzato
per indicare tutti i “gentili”, persone né etnicamente ebree né appartenenti
alla “cultura” e “religione” giudaica. Sappiamo di pagani – etnicamente
–simpatizzanti del giudaismo (timorati di Dio, es.: Cornelio, i “greci” cui ad
Antiochia si inizia a predicare nella sinagoga, At 11,20), come di giudei/ebrei
– etnicamente - che appartengono alla cultura greco-romana.
Dire cristiani, invece, significa,
nel I secolo, parlare di seguaci di Gesù, cioè persone che si
differenziano per il fatto di seguire Gesù dentro una
cultura qualsiasi, giudaica o greco-romana: in questo caso Atti
individua cristiani ebrei/giudei “giudaici” (etnici e di cultura-religione
giudaica: Pietro, Giacomo ecc.) e cristiani ebrei/giudei (etnici ma) di
cultura greco-romana (gli “ellenisti”: Stefano, 6,5); accanto, pagani
cristiani cioè provenienti dal mondo culturale-religioso dei gentili/pagani
(ad es. il centurione Cornelio, romano, già simpatizzante del giudaismo e
fattosi cristiano, 10,1; 11,20). I cristiani del I secolo, cioè, non solo non hanno
prodotto ancora una cultura a sé (una precisa e distinta organizzazione dello
spazio e del tempo), tanto meno una società uniforme, ma prescindevano da una
cultura specifica. Non sono una etnia quanto una comunità, una
associazione di persone, di etnie e culture anche diverse, dentro società già
stabilite. Se c’è un carattere innovativo – soprattutto rispetto agli ebrei - è
l’istanza missionaria svincolata da esigenze etnico-religiose, che
favorì la piena inclusione di quei greci che nel giudaismo rimanevano, come
simpatizzanti incirconcisi, ai margini dello stesso.
Ad Antiochia, perciò, s’inizierebbe
a identificare una comunità di persone che si distingue (e poi si stacca) dalla
comunità religiosa giudaica, a suo tempo radicatasi in quella città, inglobando
in modo via via prevalente i pagani.
C’è già, nei fedeli d’Antiochia, quel
“quid” che li accomuna a coloro che apparterranno a quella che sarà definita la
“Grande Chiesa”? Vista la rilevanza che Atti dà a questa chiesa rispetto
alle altre sette cristiane, cioè alle “scelte” diverse in termini di
interpretazione della vicenda di Gesù, vi è in essa un “nocciolo” comune
normativo (vincolante) che discrimina tra le opzioni pratiche e teologiche via
vie nate dall’evento Gesù dando vita ad un “sistema religioso” preciso? Diverso
dal giudaismo ovviamente, come dagli altri sistemi religiosi del tempo.
Nella geografia dei cristiani si
deve riconoscere un gruppo, presso la chiesa madre di Gerusalemme (quello di
Giacomo fratello del Signore, At 12,17), che rimarrà interno alla società
giudaica. Gli studiosi parlano di “giudeocristianesimo”. I giudeocristiani –
destinati poi a sparire - rimarrebbero giudaici per cultura, ma cristiani per
sistema religioso? Avrebbero convinzioni e prassi diverse dai giudei (come, del
resto, il Battista), senza uscire di per sé dal giudaismo (come Gesù stesso,
che rimase giudeo fino alla fine). Altri gruppi si svilupperanno nell’alveo
della sequela di Gesù, ma con caratteri più nettamente singolari e alternativi (gnostici,
ebioniti, ecc.). Sistemi religiosi cristiani o eretici? Se eretici, rispetto a
cosa?
Come si vede, la questione è complicata.
Raccogliamo l’idea che opportunamente, nel tempo delle origini, si parla di cristianesimi:
giudeocristiani, ellenistici, gnostici ecc. Paolo, nella Lettera ai Galati
(3,28) consente di orientarsi: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più
schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in
Cristo Gesù”. Paolo vuole segnalare – semplificando un po’ - che al di sopra
delle distinzioni etniche (ebreo/giudeo o greco), culturali (giudeo o
greco/gentile), sociali, di genere, c’è una nuova possibile comune
appartenenza all’unica Chiesa di Cristo (meglio, alla chiesa che è
in Filippi, Corinto, Antiochia, Gerusalemme, ecc.). Questa sospende, ma non
annulla, ogni altra appartenenza: si tratta di interpretare complessivamente la
realtà alla luce di un principio che è ora Cristo, non più etnico né
storico-culturale, né – diremmo - religioso. È in questa prospettiva che occorrerà
leggere la “libertà dei figli di Dio” propria dell’annuncio cristiano. Libertà
che ad Antiochia – lì dove Paolo è stato accolto e ha vissuto le prime
esperienza da convertito – si è certo espressa in modo singolare, tanto da
alimentare anche teologicamente lo sviluppo successivo.
Avviso ai naviganti. Ho
dovuto eccedere in questa somma di considerazioni: oggi più che mai, nella
prospettiva globale in cui il pluralismo delle culture e religioni ritorna ad
essere incontro effettivo di concezioni e modi di vita diversi, occorre
ricordare la pluralità originaria del cristianesimo che già al suo interno ha
vissuto posizioni diverse imparando le esigenze del dialogo non sempre facile,
non sempre riuscito; a volte, tradito.
Fabrizio Filiberti